giovedì 27 ottobre 2016

Un parà in Congo e Yemen 1965 1969

Nato sotto le bombe


Sono nato a Milano il 21 aprile 1942. La mia storia iniziò così, durante il secondo conflitto mondiale. Il capoluogo lombardo, come altre città italiane, era sotto il tiro dell’aviazione alleata e i bombardamenti sulla città erano all’ordine del giorno. Nonostante la guerra, la vita proseguiva. Il fatto di essere venuto al mondo in quell’anno, come tanti altri della mia generazione, lo dimostra.
Il cognome che porto è straniero e il motivo è semplice. Sono figlio di madre italiana e di padre tedesco. Purtroppo ho pochi ricordi di lui. Credo che però sia stato un uomo fuori dal comune per le scelte che fece.
Aveva combattuto nell’Afrika Korps del feldmaresciallo Erwin Rommel, soprannominato La volpe del deserto. Era sempre stato contrario a Hitler e al nazionalsocialismo, benché le apparenze possano ingannare. Addirittura, prima dello scoppio della guerra, aveva abbandonato la Germania per l’Inghilterra, in nome di questa sua reale avversione personale al Führer.
Nonostante ciò, mio padre era anche un convinto nazionalista. Amava il suo paese e mai si sarebbe sottratto ai suoi obblighi di cittadino tedesco. Quando la Germania entrò in guerra, egli rientrò in patria senza esitazioni e si offrì come volontario.

Questa sorta di sentimento volontaristico è una cosa che la nostra famiglia ha nel sangue. La mia storia personale lo dimostra, ma non per questo me ne faccio un vanto. Lo considero un dato di fatto, niente di più.

Brano tratto da "Un parà in Congo e Yemen 1965 1969"di Robert Muller e Ippolito Edmondo Ferrario, Mursia editore

Un parà in Congo e Yemen 1965 1969

Il massacro della Sucraf


Congo. I cadaveri dei civili massacrati alla Sucraf pronti per essere portati alla fossa comune


Tutti e tre ci ritrovammo di colpo svegli. Aprii la botola che portava sul tetto della nostra abitazione e salii con la mitragliatrice. Mi passarono delle cassette di munizioni. Nony cominciò a sparare dalla finestra assieme all’altro ragazzo. Dalla terrazza della casa godevo di un’ottima visuale. Vidi una moltitudine di uomini, mai visti così tanti insieme. I ribelli uscivano dalla vegetazione urlando: «Mulele mai! Mulele mai!» (Le pallottole diventeranno acqua), era la credenza che infondevano gli stregoni nei ribelli che andavano all’assalto.
Una massa disperata di uomini corse verso noi. Solo pochi erano armati con armi da fuoco, la maggioranza brandiva lance e machete. Si gettavano in avanti e si avvicinavano incuranti della tempesta di fuoco che li stava raggiungendo. Iniziai a sparare con la mitragliatrice. Raffiche, raffiche, ancora raffiche. Cadevano come mosche. Alcuni, feriti di striscio, si rialzavano; altri morivano, ma venivano sostituiti da quelli che sopraggiungevano. Ancora raffiche. Ormai tutti sparavano verso i ribelli, sicuramente drogati. Volevano la Sucraf e quelli che erano dentro. Se ci avessero preso, ci avrebbero letteralmente fatti a pezzi. Era già successo. Meglio ammazzarsi che finire nelle loro mani. La tortura era garantita.
Qualcuno mi aveva detto, non so se fosse vero, che alcuni ribelli avevano anche l’abitudine di bere etere, per rallentare il battiti del cuore e di conseguenza l’uscita del sangue dalle ferite.
Fu una strage. A un certo punto i superstiti si fermarono di colpo. Alcuni vennero avanti con le mani alzate in segno di resa. I volontari li disarmarono e li radunarono in uno dei magazzini della Sucraf usati per il deposito di materiale vario.
Nel frattempo, attorno allo stabilimento, erano convenuti dei neri, che non volevano partecipare alla lotta armata dei ribelli. Tempo prima infatti avevano costruito un piccolo villaggio che comprendeva una cinquantina di capanne.

Cominciammo un rastrellamento, per vedere se ci fosse qualche ribelle nascosto. Gli abitanti erano quasi tutti morti. Donne, uomini, vecchi, bambini, erano stati uccisi dai Simba prima che attaccassero la Sucraf. Entrai in una capanna, FAL spianato pronto a sparare. Vidi il corpo di un bambino con la testa aperta in due da un colpo di machete. Il cervello colava per terra e una gallina lo stava beccando. Uscii e vomitai quello che non avevo ancora mangiato. Evitai di consumare carne di pollo per lungo tempo.

Brano tratto da "Un parà in Congo e Yemen" di Robert Muller e Ippolito Edmondo Ferrario, Mursia editore

Un parà in Congo e Yemen 1965 1969

Ribelle per scelta


Aeroporto di Novi Ligure. Robert prima di salire in aereo per un lancio.    


La mia adolescenza iniziò a farsi irrequieta per una serie di motivi, incontri e conoscenze. Tutto cominciò un 25 aprile, il giorno della festa della Liberazione. Fino ad allora non mi ero mai occupato di politica. Avevo sedici anni e mio padre era morto da un anno. Mi recai al cimitero di Musocco per una visita alla sua tomba. Attraversando il cimitero, per caso passai davanti al Campo Dieci, dove riposavano i soldati della Repubblica Sociale Italiana. Lì incontrai quelli che sarebbero diventati i miei camerati.
Non conoscevo nessuno, ma mi fermai, attratto dalle persone che stavano sull’attenti, con il braccio destro teso, di fronte a quelle decine di tombe. Fu una visione suggestiva che mi condizionò e mi fece avvicinare a quell’ambiente.
Poco dopo mi iscrissi alla Giovane Italia. Fu essenzialmente una questione di pancia. Desideravo agire, non volevo starmene con le mani in mano. Ricordo ancora i manifesti che invitavano all’iscrizione e recitavano: “Abbiamo ancora una canzone da gettare al vento e una bandiera da innalzare al sole”.

Lo spirito mi piaceva. Divenni subito un attivista da “strada”. Non mi interessava starmene in sede a leggere libri. Questo non significa che non lessi i classici del pensiero d’area che allora circolavano ed erano i nostri riferimenti: Evola, Celine, Nietzsche. A parte questi autori, se devo pensare a un libro con cui instaurai un legame profondo, che mi fece scattare qualcosa nella testa, quello fu I proscritti di Ernst von Salomon. Il libro narra l’epopea dei Freikorps tedeschi, il clima creatosi in Germania dopo la sconfitta della Prima guerra mondiale, lo spirito di ribellione e di rivalsa dei reduci tedeschi verso la società borghese che li considerava dei perdenti. A me interessava l’azione, passare dalla teoria alla pratica nel minor tempo possibile.

Brano tratto da "Un parà in Congo e Yemen 1965 1969" di Robert Muller e Ippolito Edmondo Ferrario, Mursia editore