Un parà in Congo e Yemen 1965-1969 Un libro di Robert Muller e Ippolito Edmondo Ferrario, Mursia editore, 2016
lunedì 21 novembre 2016
Gli anni burrascosi della militanza politica nell'estrema destra milanese.
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Il massacro della Sucraf.
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giovedì 27 ottobre 2016
Un parà in Congo e Yemen 1965 1969
Sono
nato a Milano il 21 aprile 1942. La mia storia iniziò così, durante il secondo
conflitto mondiale. Il capoluogo lombardo, come altre città italiane, era sotto
il tiro dell’aviazione alleata e i bombardamenti sulla città erano all’ordine
del giorno. Nonostante la guerra, la vita proseguiva. Il fatto di essere venuto
al mondo in quell’anno, come tanti altri della mia generazione, lo dimostra.
Il
cognome che porto è straniero e il motivo è semplice. Sono figlio di madre
italiana e di padre tedesco. Purtroppo ho pochi ricordi di lui. Credo che però sia stato un uomo fuori dal comune per le scelte
che fece.
Aveva combattuto nell’Afrika Korps del feldmaresciallo Erwin
Rommel, soprannominato La volpe del deserto. Era sempre stato contrario a
Hitler e al nazionalsocialismo, benché le apparenze possano ingannare.
Addirittura, prima dello scoppio della guerra, aveva abbandonato la Germania
per l’Inghilterra, in nome di questa sua reale avversione personale al Führer.
Nonostante ciò, mio padre era anche un convinto nazionalista.
Amava il suo paese e mai si sarebbe sottratto ai suoi obblighi di cittadino
tedesco. Quando la Germania entrò in guerra, egli rientrò in patria senza
esitazioni e si offrì come volontario.
Questa sorta di sentimento volontaristico è una cosa che la nostra
famiglia ha nel sangue. La mia storia personale lo dimostra, ma non per questo
me ne faccio un vanto. Lo considero un dato di fatto, niente di più.
Brano tratto da "Un parà in Congo e Yemen 1965 1969"di Robert Muller e Ippolito Edmondo Ferrario, Mursia editore
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Un parà in Congo e Yemen 1965 1969
Il massacro della Sucraf
Congo. I cadaveri dei civili massacrati alla Sucraf pronti
per essere portati alla fossa comune
Tutti e tre ci ritrovammo di colpo svegli. Aprii la botola che
portava sul tetto della nostra abitazione e salii con la mitragliatrice. Mi
passarono delle cassette di munizioni. Nony cominciò a sparare dalla finestra
assieme all’altro ragazzo. Dalla terrazza della casa godevo di un’ottima
visuale. Vidi una moltitudine di uomini, mai visti così tanti insieme. I
ribelli uscivano dalla vegetazione urlando: «Mulele mai! Mulele mai!» (Le pallottole diventeranno acqua), era la credenza che
infondevano gli stregoni nei ribelli che andavano all’assalto.
Una massa disperata di uomini corse verso noi. Solo pochi erano
armati con armi da fuoco, la maggioranza brandiva lance e machete. Si gettavano
in avanti e si avvicinavano incuranti della tempesta di fuoco che li stava
raggiungendo. Iniziai a sparare con la mitragliatrice. Raffiche, raffiche,
ancora raffiche. Cadevano come mosche. Alcuni, feriti di striscio, si
rialzavano; altri morivano, ma venivano sostituiti da quelli che
sopraggiungevano. Ancora raffiche. Ormai tutti sparavano verso i ribelli,
sicuramente drogati. Volevano la Sucraf e quelli che erano dentro. Se ci
avessero preso, ci avrebbero letteralmente fatti a pezzi. Era già successo.
Meglio ammazzarsi che finire nelle loro mani. La tortura era garantita.
Qualcuno mi aveva detto, non so se fosse vero, che alcuni ribelli
avevano anche l’abitudine di bere etere, per rallentare il battiti del cuore e
di conseguenza l’uscita del sangue dalle ferite.
Fu una strage. A un certo punto i superstiti si fermarono di
colpo. Alcuni vennero avanti con le mani alzate in segno di resa. I volontari
li disarmarono e li radunarono in uno dei magazzini della Sucraf usati per il
deposito di materiale vario.
Nel frattempo, attorno allo stabilimento, erano convenuti dei
neri, che non volevano partecipare alla lotta armata dei ribelli. Tempo prima
infatti avevano costruito un piccolo villaggio che comprendeva una cinquantina
di capanne.
Cominciammo un rastrellamento, per vedere se ci fosse qualche
ribelle nascosto. Gli abitanti erano quasi tutti morti. Donne, uomini, vecchi,
bambini, erano stati uccisi dai Simba prima che attaccassero la Sucraf. Entrai
in una capanna, FAL spianato pronto a sparare. Vidi il corpo di un bambino con
la testa aperta in due da un colpo di machete. Il cervello colava per terra e
una gallina lo stava beccando. Uscii e vomitai quello che non avevo ancora
mangiato. Evitai di consumare carne di pollo per lungo tempo.
Brano tratto da "Un parà in Congo e Yemen" di Robert Muller e Ippolito Edmondo Ferrario, Mursia editore
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Un parà in Congo e Yemen 1965 1969
Ribelle per scelta
Aeroporto di Novi Ligure. Robert prima di salire in
aereo per un lancio.
La mia adolescenza iniziò a farsi irrequieta per una serie di
motivi, incontri e conoscenze. Tutto cominciò un 25 aprile, il giorno della
festa della Liberazione. Fino ad allora non mi ero mai occupato di politica.
Avevo sedici anni e mio padre era morto da un anno. Mi recai al cimitero di
Musocco per una visita alla sua tomba. Attraversando il cimitero, per caso
passai davanti al Campo Dieci, dove riposavano i soldati della Repubblica
Sociale Italiana. Lì incontrai quelli che sarebbero diventati i miei camerati.
Non conoscevo nessuno, ma mi fermai, attratto dalle persone che
stavano sull’attenti, con il braccio destro teso, di fronte a quelle decine di
tombe. Fu una visione suggestiva che mi condizionò e mi fece avvicinare a
quell’ambiente.
Poco dopo mi iscrissi alla Giovane Italia. Fu essenzialmente una
questione di pancia. Desideravo agire, non volevo starmene con le mani in mano.
Ricordo ancora i manifesti che invitavano all’iscrizione e recitavano: “Abbiamo
ancora una canzone da gettare al vento e una bandiera da innalzare al sole”.
Lo spirito mi piaceva. Divenni subito un attivista da “strada”.
Non mi interessava starmene in sede a leggere libri. Questo non significa che
non lessi i classici del pensiero d’area che allora circolavano ed erano i
nostri riferimenti: Evola, Celine, Nietzsche. A parte questi autori, se devo
pensare a un libro con cui instaurai un legame profondo, che mi fece scattare
qualcosa nella testa, quello fu I proscritti di Ernst von Salomon. Il
libro narra l’epopea dei Freikorps tedeschi, il clima creatosi in Germania dopo
la sconfitta della Prima guerra mondiale, lo spirito di ribellione e di rivalsa
dei reduci tedeschi verso la società borghese che li considerava dei perdenti.
A me interessava l’azione, passare dalla teoria alla pratica nel minor tempo
possibile.
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