Il massacro della Sucraf
Congo. I cadaveri dei civili massacrati alla Sucraf pronti
per essere portati alla fossa comune
Tutti e tre ci ritrovammo di colpo svegli. Aprii la botola che
portava sul tetto della nostra abitazione e salii con la mitragliatrice. Mi
passarono delle cassette di munizioni. Nony cominciò a sparare dalla finestra
assieme all’altro ragazzo. Dalla terrazza della casa godevo di un’ottima
visuale. Vidi una moltitudine di uomini, mai visti così tanti insieme. I
ribelli uscivano dalla vegetazione urlando: «Mulele mai! Mulele mai!» (Le pallottole diventeranno acqua), era la credenza che
infondevano gli stregoni nei ribelli che andavano all’assalto.
Una massa disperata di uomini corse verso noi. Solo pochi erano
armati con armi da fuoco, la maggioranza brandiva lance e machete. Si gettavano
in avanti e si avvicinavano incuranti della tempesta di fuoco che li stava
raggiungendo. Iniziai a sparare con la mitragliatrice. Raffiche, raffiche,
ancora raffiche. Cadevano come mosche. Alcuni, feriti di striscio, si
rialzavano; altri morivano, ma venivano sostituiti da quelli che
sopraggiungevano. Ancora raffiche. Ormai tutti sparavano verso i ribelli,
sicuramente drogati. Volevano la Sucraf e quelli che erano dentro. Se ci
avessero preso, ci avrebbero letteralmente fatti a pezzi. Era già successo.
Meglio ammazzarsi che finire nelle loro mani. La tortura era garantita.
Qualcuno mi aveva detto, non so se fosse vero, che alcuni ribelli
avevano anche l’abitudine di bere etere, per rallentare il battiti del cuore e
di conseguenza l’uscita del sangue dalle ferite.
Fu una strage. A un certo punto i superstiti si fermarono di
colpo. Alcuni vennero avanti con le mani alzate in segno di resa. I volontari
li disarmarono e li radunarono in uno dei magazzini della Sucraf usati per il
deposito di materiale vario.
Nel frattempo, attorno allo stabilimento, erano convenuti dei
neri, che non volevano partecipare alla lotta armata dei ribelli. Tempo prima
infatti avevano costruito un piccolo villaggio che comprendeva una cinquantina
di capanne.
Cominciammo un rastrellamento, per vedere se ci fosse qualche
ribelle nascosto. Gli abitanti erano quasi tutti morti. Donne, uomini, vecchi,
bambini, erano stati uccisi dai Simba prima che attaccassero la Sucraf. Entrai
in una capanna, FAL spianato pronto a sparare. Vidi il corpo di un bambino con
la testa aperta in due da un colpo di machete. Il cervello colava per terra e
una gallina lo stava beccando. Uscii e vomitai quello che non avevo ancora
mangiato. Evitai di consumare carne di pollo per lungo tempo.
Brano tratto da "Un parà in Congo e Yemen" di Robert Muller e Ippolito Edmondo Ferrario, Mursia editore
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